Spaccio di lieve entità: nessun automatismo o preclusione che si basi solo sui quantitativi della sostanza stupefacente.
Occorre, in primo luogo, considerare che la fattispecie di reato prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (trasformata da ipotesi circostanziale in delitto autonomo per effetto dell’art. 2 d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni con I. 21 febbraio 2014, n. 10), è ravvisabile nei casi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo dello stupefacente, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione e segnatamente dai mezzi, dalle modalità e dalle circostanze dell’azione.
In linea con il chiaro enunciato testuale del citato comma 5 dell’art. 73, la "quantità" "delle sostanze" costituisce soltanto un dato sintomatico della non lieve entità del fatto, comunque da valutare nel contesto delle ulteriori circostanze e peculiarità del caso di specie, alla luce del prudente apprezzamento del giudice.
In tale senso è l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione espresso nella sentenza n. 35737/2010 (del 24/06/2010, P.G. in proc. Rico, Rv. 247911), là dove, nel ribadire il principio già affermato a composizione allargata (v. Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera e altri, Rv. 216668) - secondo il quale l’ipotesi in parola "può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio" -, hanno nondimeno osservato in motivazione come la questione circa l’applicabilità o meno della norma in parola "non possa essere risolta in astratto, stabilendo incompatibilità in via di principio, ma deve trovare soluzione caso per caso, con valutazione che di volta in volta tenga conto di tutte le specifiche e concrete circostanze" (nella specie, si trattava di una cessione a minore, giudicata compatibile con l’ipotesi della lieve entità). Conclusione d’altronde coerente con i principi di offensività, di proporzionalità e di individualizzazione e finalità rieducativa della pena costituzionalmente presidiati, là dove rimettono al giudice la valutazione del caso concreto onde determinare un trattamento sanzionatorio adeguato, id est calibrato, alle specifiche modalità e circostanze della situazione sub iudice, rifuggendo da automatismi sanzionatori.
Sotto diverso aspetto, occorre ricordare il principio di diritto ormai pacifico, alla stregua del quale l’ipotesi del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non è incompatibile con lo svolgimento di attività di spaccio di stupefacenti non occasionale ma continuativa, come si desume dall’art. 74, comma 6, stesso d.P.R., che, con il riferimento ad un’associazione costituita per commettere fatti descritti dal comma 5 dell’art. 73, rende evidente che è ammissibile configurare come lievi anche gli episodi che costituiscono attuazione del programma criminoso associativo (Sez. F, n. 39844 del 13/08/2015, Bannour e altri, Rv. 264678; Sez. 6, n. 48697 del 26/10/2016, Tropeano e altri, Rv. 268171; Sez. F, n. 39844 del 13/08/2015, Bannour e altri, Rv. 264678).
Deve dunque rilevarsi che, come l’occasionalità della condotta non può da sola comportare il riconoscimento della fattispecie della lieve entità, allo stesso modo il suo contrario non può di per sé costituire indice sicuro di inapplicabilità dell’ipotesi, dovendosi verificare a cura del decidente - che dovrà motivare specificamente sul punto - se la condotta, pur connotata dalla predisposizione dei mezzi e dalla programmazione delle modalità esecutive, cioè da un’organizzazione, presenti contorni (ad esempio, per il ristretto ambito temporale di operatività, per lo scarno numero di clienti, per la scarsa professionalità) che consentano di ritenere minima l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma, che si connette al rischio di diffusività delle sostanze stupefacenti (Sez. 6, n. 14882 del 25/01/2017, Fonzo e altri, Rv. 269457, in motivazione).
D’altronde, la riconducibilità dello spaccio reiterato o organizzato all’ipotesi lieve non postula necessariamente una risposta debole dell’ordinamento, potendo il decidente determinare la sanzione nell’ambito di un’ampia forbice edittale e dunque, se del caso, applicare una pena attestata sul massimo comminato dalla norma.
Sulla base dei principi sopra esposti, la Suprema Corte, con sentenza n. 39374/17 ha affermato il principio di diritto alla stregua del quale, in tema di sostanze stupefacenti, ai fini del riconoscimento della fattispecie incriminatrice del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il giudice è tenuto a valutare, secondo una visione unitaria e globale, tutti gli elementi normativamente indicati, quindi, sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli attenenti all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa) come manifestatisi nel peculiare caso di specie, senza nessun automatismo o preclusione, potendo escludere il riconoscimento della fattispecie in ragione del dato quantitativo della sostanza ovvero dei connotati dell’azione soltanto qualora essi possano ritenersi dimostrativi di una significativa potenzialità offensiva e, dunque, di un elevato pericolo di diffusività della sostanza, inconciliabili con la fattispecie incriminatrice in parola.