Tenuità del fatto e reato continuato. Giurisprudenza di merito vs giurisprudenza di legittimità.
Il reato continuato è un particolare istituto di diritto penale previsto dall'art. 81 cpv, laddove è previsto che "è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi, più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge".
Si tratta di una norma posta a garanzia del reo resosi colpevole di più reati commessi nel perseguimento di un unico disegno criminoso: in questo modo, vengono evitate le asprezze tipiche del cumulo materiale delle pene.
Intorno a questo istituto si è acceso un forte dibattito dottrinale e giurisprudenziale, rispetto alla possibilità di applicare, anche nel caso di continuazione tra reati, la neo introdotta causa di non punibilità della "tenuità del fatto".
E ciò perché l'art. 131 bis c.p. dispone che il reato non debba essere punito laddove il comportamento del reo non risulti abituale: il legislatore, precisando meglio il concetto di abitualità, ha evidenziato che il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Come abbiamo avuto modo di constatare già in premessa, il reato continuato si caratterizza proprio per la pluralità di condotte che concorrono tra loro nel perseguimento del medesimo disegno criminoso: tanto è bastato alla giurisprudenza di legittimità per escludere l'applicabilità della non punibilità per tenuità del fatto nei casi di continuazione tra reati.
Si segnalano, a tale proposito, due sentenze della Corte di Cassazione, pronunciate di recente sul tema:
- ad avviso di Cass. n. 43816/15 "la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 - bis cod. pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un'ipotesi di " comportamento abituale", ostativa al riconoscimento del beneficio";
- per Cass. n. 29897/15 "la esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, e giudicati nel medesimo procedimento, configurando anche il reato continuato una ipotesi di “comportamento abituale”, ostativa al riconoscimento del beneficio".
Su una diversa linea interpretativa dell'art. 131 bis c.p., invece, si è posta una decisione emessa dal Tribunale di Grosseto, della quale si riportano alcuni passaggi fondamentali:
Quanto all'aver commesso più reati della stessa indole, ritiene questo giudicante che il concetto di reato della stessa indole non sia sovrapponibile in tutto e per tutto a quello della commissione di più reati in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Proprio perché l'intento effettivo perseguito dal legislatore è stato quello di escludere dal benefico solo quei soggetti per i quali si puo' affermare che il reato commesso sia espressione di una sorta di usuale comportamento di vita (oggettivizzato dalla ricorrenza di uno dei tre criteri sopra esposti), se ne deve concludere che l'aver commesso più reati in continuazione tra loro, non sia di per sé espressione di quella abitualità nel comportamento richiesta dalla norma per escluderne l'operatività. In altri termini il criterio in esame si riferisce, a parere di questo giudicante, all'esistenza di più reati nella storia personale del soggetto che, sulla base dei criteri predisposti dall'art. 101 cp, consentono di ritenerlo abitualmente dedito alla commissione di quel tipo di reati, anche in assenza di una dichiarazione giudiziale in tal senso. In questa prospettiva interpretativa si tratta di una ulteriore specificazione del primo criterio, meramente formale, previsto dal terzo comma dell'art. 131 bis, con il quale si pone in continuità logica, consentendo al giudice di ricorrere ai parametri previsti dall'art. 101 cp, per escludere la causa di non punibilità, pur in assenza dei presupposti formali per la declaratoria giudiziale di abitualità, professionalità o per tendenza. In questa prospettiva, rafforzata dall'uso della congiunzione "ovvero" per legare i due periodi della medesima frase, i due criteri in realtà sono espressione di una medesima ratio, tesa ad escludere dall'ambito di operatività dell'istituto non già il reato continuato tout court, bensì solo quelle reiterazioni di condotte che, in base al parametro normativo sopra esposto, consentono di ritenere l'agente abitualmente dedito al crimine, ancorché i singoli comportamenti possano essere considerati di per sé di particolare tenuità (si pensi al soggetto che commette un furto e che ha già commesso altri reati ed bagatellari contro il patrimonio, in una serialità comportamentale che porta il giudice a concludere per l'abitualità del comportamento, pur in assenza di una declaratoria pregressa ed anche prescindendo dal dato formale della contestazione della recidiva). In questa prospettiva il terreno di elezione del secondo criterio, strettamente connesso al primo, è quello della recidiva specifica di cui all'art. 99, comma secondo cp, ma anche in questo caso i due istituti non sono perfettamente sovrapponibili, poiché la valutazione di abitualità sottesa all'aver commesso più reati della stessa indole puo' portare ad escludere dal beneficio un soggetto nei cui confronti non sia stata contestata la recidiva, nonostante la presenza di precedenti.
Maggiori difficoltà sorgono, apparentemente, con il terzo criterio laddove richiama la reiterazione di condotte, unitamente alle condotte plurime ed abituali, per desumerne l'abitualità del comportamento e, quindi, la non applicabilità della causa di non punibilità. La chiave di lettura sopra esposta a parere di questo giudicante consente di risolvere il problema poiché la norma va riferita a quei reati che per la loro struttura presuppongono la commissione di condotte reiterate nel tempo ovvero abituali. Del resto se lo scopo del legislatore è stato quello di escludere dall'area di operatività della causa di non punibilità solo le condotte seriali, espressione di uno stile di vita abitualmente dedito alla commissione di quel tipo di reati, tanto da non prevedere di per sé la recidiva come causa di esclusione, inizialmente inserita nel progetto legislativo ma poi esclusa dal testo definitivo, ne consegue che a maggior ragione l'aver commesso più reati avvinti dal vincolo della continuazione (istituto, peraltro, previsto in favore del reo e che realizza una unificazione legislativa) di per sé non puo' portare al medesimo risultato.
In questa prospettiva, pertanto, l'aver commesso più reati unificati dal vincolo della continuazione ed oggetto del processo nel quale il giudice deve valutare l'applicabilità della causa di non punibilità, di per sé non costituisce circostanza ostativa alla sua applicazione, a meno che il giudice ritenga che dal complesso degli elementi a sua disposizione ed in particolare dai precedenti penali e giudiziari, il soggetto sia abitualmente dedito a comportarsi nel medesimo modo per il quale è sottoposto a processo.
Questa soluzione, ad avviso di chi scrive, appare molto più ragionevole: così valutando i rapporti tra reato continuato e tenuità del fatto, tra l'altro, viene lasciata al giudice la possibilità di effettuare, qualora si versi nel caso continuazione, una valutazione in concreto dei fatti oggetto del giudizio, consentendogli di pronunciare una decisione equa e non lesiva del principio di uguaglianza, di cui all'art. 3 Cost.
Avv. Giuseppe Di Palo