L'elemento soggettivo nel reato di fuga dopo un sinistro stradale.
La Corte d'Appello di Firenze, in accoglimento dell'impugnazione del P.M., pronunciava la condanna dell'imputato M. per il reato di cui all'art.189, commi 6 e 7, CdS perché, dopo aver tagliato la strada al motoveicolo condotto da A.E. provocandone la caduta a terra, aveva omesso di arrestare la marcia e di prestare soccorso alla parte lesa che aveva riportato lesioni.
L'imputato, ricorrendo per Cassazione, censura la sentenza d'appello, tra l'altro, perché aveva omesso di esaminare tutto il materiale probatorio acquisito ed in particolare non aveva tenuto conto dell'avanzata età dell'imputato (75 anni) e delle condizioni di tempo che limitavano le percezioni uditive e visive. L'imputato, infatti, secondo la prospettazione difensiva sostenuta sulla base dei dati emersi nel corso dell'istruttoria dibattimentale, stava svoltando a destra e non aveva notato nulla che potesse far pensare ad un impatto contro un altro veicolo e ad una persona caduta a terra.
La Suprema Corte coglie l'occasione per riordinare le idee sull'elemento soggettivo del reato di fuga.
Ed infatti, in sentenza viene premesso che nel reato di "fuga", punito solo a titolo di dolo, l'accertamento dell'elemento psicologico va compiuto in relazione al momento in cui l'agente pone in essere la condotta e, quindi, alle circostanze dal medesimo concretamente rappresentate e percepite in quel momento, le quali devono essere univocamente indicative della sua consapevolezza di aver provocato un incidente idoneo ad arrecare danno alle persone.
Peraltro, si è precisato come l'elemento soggettivo possa essere integrato anche dal dolo eventuale, ossia dalla consapevolezza del verificarsi di un incidente riconducibile al proprio comportamento che sia concretamente idoneo a produrre eventi lesivi, senza che debba riscontrarsi l'esistenza di un effettivo danno alle persone e che il dolo deve investire non solo l'evento dell'incidente ma anche il danno alle persone e, conseguentemente, la necessità del soccorso, che non costituisce una condizione di punibilità; tuttavia la consapevolezza che la persona coinvolta nell'incidente ha bisogno di soccorso può sussistere anche sotto il profilo del dolo eventuale, che si configura normalmente in relazione all'elemento volitivo, ma che può attenere anche all'elemento intellettivo, quando l'agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso l'esistenza.
Ciò posto, a fronte di tali principi di diritto che reggono la materia in trattazione, la Corte d'Appello di Firenze si è limitata ad affermare che l'entità dell'urto ed il fatto che l'imputato si sia soffermato, sebbene per pochi istanti, dimostrerebbero quantomeno il dolo eventuale del reato, non potendosi ragionevolmente sostenere che l'imputato non si fosse prospettato di aver provocato un incidente accettando il rischio che vi fossero persone lese cui prestare assistenza.
E' proprio questo il ragionamento che, secondo il Supremo Collegio non può essere sostenuto.
Ad avviso dei Giudici di Cassazione, infatti, hanno evidenziato, richiamando l'orientamento già espresso dalle Sezioni Unite, che il dolo eventuale designa l'area dell'imputazione soggettiva dagli incerti confini in cui l'evento non costituisce l'esito finalistico della condotta, né è previsto come conseguenza certa o altamente probabile: l'agente si rappresenta un possibile risultato della sua condotta e ciononostante si induce ad agire accettando la prospettiva che l'accadimento abbia luogo.....si tratta di un atteggiamento psichico che indichi una qualche adesione interiore all'evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non direttamente voluta dalla propria condotta.
Ne deriva, perciò, che nel reato di fuga, il dolo eventuale va riferito alle conseguenze dell'incidente, nel senso della condotta di chi - certo di aver provocato un sinistro - si allontani senza fermarsi pur nella prospettiva della presenza di feriti da soccorrere ed accettando quindi come possibile risultato di incorrere nelle omissioni penalmente rilevanti.
Ciò avrebbe dunque imposto alla Corte d'Appello una motivazione che desse conto del ragionamento in base al quale è stato ritenuto che il conducente imputato si fosse reso realmente conto di aver provocato un sinistro ed ancor più che avesse assunto su di sé il dubbio in ordine all'esistenza di conseguenze lesive che esigessero soccorso.
Motivazione che sul punto, osservano i Giudici della Cassazione, tace: e tale silenzio è dovuto al fatto che non è emersa, nei giudizi di merito, alcuna prova rispetto alla certezza che l'imputato si fosse avveduto di aver causato un sinistro e che fosse necessario prestare un soccorso.
Avv. Giuseppe Di Palo