Famiglia more uxorio: maltrattamenti in famiglia anche quando la convivenza è cessata?

29.05.2017 17:10

Per risolvere la questione in oggetto, viene in considerazione la struttura del reato di cui all’art. 572 cod. pen., nei contenuti novellati dalla legge 1 ottobre 2012 n. 172, dovendosi in tal modo stabilire se possano ricondursi alla norma incriminatrice condotte di maltrattamento maturate all’interno di una coppia di fatto per il tempo in cui i suoi componenti, genitori di un figlio naturale, abbiano cessato di convivere.
Con l’introdotta novella, il legislatore penale, nella premessa identità di valore dell’unione di fatto o more uxorio all’istituto della famiglia nascente dal matrimonio quali formazioni sociali a rilievo costituzionale in cui si svolge la personalità dell’individuo (art. 2 Cost.), ne ha riconosciuto tutela penale individuando la persona offesa del reato di maltrattamenti non solo nel componente della famiglia, ma anche nel convivente di fatto.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, pur nella premessa identità di tutela, ha comunque certamente distinto tra le due posizioni escludendo che la convivenza, e quindi la coabitazione, sia presupposto applicativo del reato quando si faccia questione, per le contestate condotte di maltrattamento, della violazione di obblighi di collaborazione che siano espressivi di consolidati legami sorti nell’ambito di una comunità familiare.
Il dato materiale della mancanza di attualità della convivenza o della coabitazione, là dove vengano in considerazione condotte di maltrattamento di cui all’art. 572 cod. pen. adottate in un contesto familiare, diviene recessivo e non rilevante al fine di escludere l’integrazione della fattispecie criminosa.
La cessazione della convivenza non determina infatti il venir meno di vincoli ed obblighi tra i componenti del nucleo familiare, restando i primi sostenuti dall’istituto del matrimonio e dalle leggi di disciplina del derivato rapporto di coniugio o ancora dal rapporto di filiazione (artt. 29 e 30 Cost.; art. 143 e ss. cod. civ.; art. 315 e ss. cod. civ.).
In ragione di persuasivo e condivisibile indirizzo interpretativo, peraltro espresso anche di recente dalla Suprema Corte, si ritiene che nei rapporti tra coniugi separati in via giudiziale o consensuale permangono, sia pure in forma attenuata in ragione del sostanziale allentamento del vincolo matrimoniale, reciproci obblighi di rispetto, di assistenza morale e materiale e di collaborazione nell’interesse della famiglia (art. 143 cod. civ.), la cui violazione integra il reato di maltrattamenti in famiglia (Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012 (dep. 2013), M., Rv. 254026; Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv. 255628, in motivazione, p. 3; Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, Spazzoli, Rv. 267915).
L’istituto della famiglia come società naturale nascente dal matrimonio (art. 29 Cost.) è fonte di obblighi che permangono, e la cui violazione integra il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen., anche quando manchi o venga meno la convivenza tra i coniugi, in ragione di reciproche relazioni di rispetto ed assistenza riconducibili a fonte legale, destinate a venir meno solo con il divorzio (Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, L., Rv. 258644), che di quel legame segna lo scioglimento.
Diversamente, ove la relazione tra due persone si traduca in una famiglia di fatto o more uxorio, la cessazione della convivenza segna l’estinzione della prima nel sottolineato rilievo che per una siffatta ipotesi sia proprio la convivenza o coabitazione a manifestare il rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone in un consorzio familiare (Sez. 6, n. 22915, cit.).
Nell’indicato principio deve comunque restare ferma un’eccezione e cioè la presenza di elementi, ulteriori rispetto alla convivenza, che rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza nonostante la cessazione della coabitazione, nella premessa che il rapporto familiare di fatto, presupposto del reato di maltrattamenti in famiglia, non sia stato di estemporanea formazione e durata.
La cessazione della convivenza non esclude infatti, per ciò stesso, la configurabilità di condotte di maltrattamento tra i componenti della coppia quando il rapporto personale di fatto sia stato il risultato di un progetto di vita fondato sulla reciproca solidarietà ed assistenza la cui principale ricaduta non può che essere il derivato rapporto di filiazione.
La presenza di un figlio, espressiva dell’importanza e della stabilità della relazione, è come tale portatrice nei confronti di un soggetto debole e rispetto agli ex conviventi di obblighi - da misurarsi sullo stato giuridico riconosciuto nel nostro ordinamento a tutti i figli legittimi e naturali ex art. 315 e ss. cod. civ. - destinati a protrarsi anche dopo la cessazione della convivenza, in tal modo trovando definizione, per la norma in applicazione, una nozione estesa di famiglia comprensiva di forme alternative a quella derivante dal matrimonio, ma destinate ad assumere identica dignità e tutela.
La permanenza del complesso di obblighi verso il figlio per il cui adempimento la coppia già convivente è chiamata a relazionarsi segna altresì il permanere dei doveri di collaborazione e di reciproco rispetto.
Il principio ha già trovato applicazione nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, là dove si è escluso che alla cessazione della convivenza di fatto o di quella derivante da matrimonio per pronuncia di divorzio consegua, per la configurabilità del reato di cui all’art. 572 cod. pen., il venir meno di ogni consorzio familiare (in termini, sulla configurabilità dei maltrattamenti in famiglia: Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013 cit.; Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078, in caso di cessazione di convivenza di fatto; Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, cit., in caso di cessazione di convivenza matrimoniale segnata da una sentenza di divorzio).
L’interesse leso esclude che per lo stesso possa venire in considerazione il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. destinato residualmente ad operare in situazioni in cui non vengano in considerazione condotte maturate in ambito familiare.
Recentemente la legge 20 maggio 2016, n. 76, la cui portata innovativa si è apprezzata per l’introdotta regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, nel disciplinare anche le convivenze di fatto provvede a darne definizione, qualificando i conviventi come "due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile" (art. 1, comma 36).
L’indicata delimitazione segna il ritorno di un linguaggio che, evocando la stabilità del legame e la reciprocità dell’assistenza morale e materiale, riprende, in buona parte, quello utilizzato dal legislatore nazionale a definizione della relazione matrimoniale fondativa del concetto tradizionale di famiglia.